“Dov’è Boris?”: Guzzanti vince, ma la parodia dei radical si conferma infattibile

Forse è eccessivo fare i complimenti a Corrado Guzzanti per aver portato sul piccolo schermo una miniserie tv andando oltre l’insidioso schema della sequela di sketch, perché l’uomo è troppo intelligente e raffinato per votarsi a una malgiocata del genere. Insomma, naturale che non ci sia cascato. Meglio cercare altrove gli oggetti di un caloroso plauso: per esempio la capacità di maneggiare con una certa grazia temi e leve non originali (lo sdoppiamento, la critica agli intellettuali, i comici fracassoni) o, semplicemente, la qualità della storia, curata e avvincente, mai in ritirata. Da registrare, poi, come “Dove’è Mario?” parli, in modo diverso, con due prodotti seriali brillanti degli ultimi anni. Uno è “Boris”, che nell’epopea di Bambea/Capoccetti si fa sentire e vedere sia dietro, sia davanti alla macchina da presa. Il “Je Suis Charlie Hebdo” pronunciato dallo zombie di Saverio Muscia (che è Valerio Aprea, volto di uno degli sceneggiatori de “Gli occhi del cuore”), per esempio, è un tuffo nell’ironia dissacrante della “fuoriserie italiana”, di cui molti, disperati, hanno maledetto lo stop (invece provvidenziale) dopo tre ottime stagioni. E, del resto, tanto per parlar di ponti, la penna di Guzzanti è affiancata da quella del borisiano Luca Vendruscolo. C’è anche un leggero tormentone “cane, cane, cane!” (evitabile), che, in bocca a un terapeuta della Roma bene, rivolto a un collega, ricalca l’arcinoto apprezzamento di René Ferretti a carico di Corinna. L’altro prodotto con cui “Dov’è Mario?” parla è “Mario”, la serie firmata da Maccio Capatonda, andata in onda su Mtv nel 2013 (prima stagione) e nel 2014 (seconda). Un ponte che poggia essenzialmente sull’omonimia e sul meccanismo della scissione, con la comune emersione di una versione volgare del personaggio “base”. Le analogie si fermano qui, perché parliamo di umorismi ben diversi: ma non pensare a “Mario”, guardando l’ultima fatica di Guzzanti, è dura. S’impone infine un ulteriore tema, che inquadra uno dei rari nei della miniserie: l’impossibilità di rendere una parodia del mondo radical. Si tratta dell’ennesima conferma di quest’impossibilità. La caricatura della moglie di Mario, del suo viscido amico Rigoldi, dell’intellettuale Bambea stesso, è un’impresa sterile, raramente felice. Perché canzonare una schiera di così grandi antipatia e supponenza, è comunque un riproporla, e la manipolazione in chiave parodica non salva lo spettatore dal fastidio. Vengono in mente certe edizioni di “Mai dire Grande fratello”, con inquilini tanto indigesti da non riuscire a riderne neppure grazie al lavoro ai fianchi della Gialappa’s band. Quindi, anche Guzzanti e Vendruscolo, penne di livello, falliscono, al pari di autori che, con buon equipaggiamento di banalità – viene in mente Zalone – hanno preso di mira il mondo intellò italiano. Forse, il punto, è che la caricatura di chi già è caricatura di sé stesso proprio non si regge in piedi.

Il volto dei sentimenti

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