Il terrorismo della guerra al terrore

Con la sua durata di quindici anni, la Guerra al Terrore è uno dei conflitti più lunghi mai combattuti nella Storia recente. È anche una delle guerre più costose mai combattute, in termini assoluti, se si accetta la cifra di quasi 4.000 miliardi di dollari spesi dai soli Stati Uniti.
Soprattutto, quella al terrorismo è forse la guerra più pervasiva mai combattuta. Gli avversari si combattono su uno scacchiere che corrisponde all’intero pianeta.
Da un lato, i terroristi possono colpire, potenzialmente, in qualsiasi nazione del Mondo. E i loro obiettivi sono, nella maggioranza dei casi, civili.
Dall’altro, il fatto di contrastare un nemico potenzialmente onnipresente autorizza moralmente (ma non giuridicamente) gli Stati Uniti ad intervenire nelle dinamiche interne di tutte le nazioni del Mondo. O meglio, la necessità di combattere il terrorismo porta l’opinione pubblica statunitense ad appoggiare l’ingerenza del governo USA nella politica interna di altre nazioni. Sicuramente, le opinioni pubbliche esterne agli USA sono di diverso avviso.

La cosiddetta Guerra al Terrore ha ormai assunto da molti anni i connotati di un’operazione di polizia su scala globale. Se si eccettua l’invasione angloamericana dell’Iraq nel 2003, anch’essa inizialmente giustificata con il pretesto di presunti contatti tra Saddam Hussein e al Quaeda, non vi sono stati scontri aperti tra due eserciti regolari. Anche la resistenza armata che ha accompagnato l’occupazione americana dell’Iraq ha assunto quasi sempre connotati terroristici, uscendo da quelli che per oltre due secoli sono stati i binari classici della guerriglia (quando ciò non è avvenuto, come a Falluja nel 2004, questa resistenza è stata schiacciata con una brutalità tale da sconsigliare la reiterazione delle stesse tattiche).

A combattere questa guerra non sono solo gli USA. I servizi segreti e gli eserciti di molte altre nazioni, in maggioranza europee, lottano ormai da anni contro questo nemico apparentemente invisibile e in grado di colpire ovunque.
Nonostante questo, gli USA intervengono direttamente in molti stati in tutto il mondo, attraverso operazioni militari e di polizia. L’esempio più eclatante fu l’operazione che portò all’uccisione di Osama Bin Laden, avvenuta su suolo pakistano senza informare le autorità politiche o militari locali, sostanzialmente ignorando la sovranità nazionale del Pakistan.

Il Pakistan è da molti anni teatro di uno scontro quotidiano tra gli USA e le forze integraliste islamiche. Questo scontro, però, avviene ormai soprattutto nella forma di raid aerei statunitensi effettuati con i droni.
Nei primi anni di impiego dei droni, questi attacchi provocavano un discreto numero di vittime civili, in Pakistan e Afghanistan. In seguito alle proteste sollevate in particolare dal Pakistan, a partire dal 2011, dopo una sospensione delle operazioni di questo tipo, la precisione di questi attacchi sembrò aumentare, con la diminuzione del numero di vittime civili.
Ma i semplici numeri sembrano nascondere una realtà ben diversa. Al 2013, solo 84 delle quasi 4.000 vittime di questi attacchi sarebbero state membri accertati di al Quaeda.

Nel suo saggio “Teoria del drone”, il filosofo francese Grégoire Chamayou fa notare come, a partire dal 2011, l’aviazione statunitense abbia cambiato il metodo di conteggio delle vittime degli attacchi portati da aerei e droni. Prima di questa data venivano considerate vittime militari solo quelle sospette di terrorismo. Dopo le polemiche sollevate dalla comunità internazionale e dalle ONG per l’alto numero di “vittime collaterali”, gli statunitensi hanno incluso nel conteggio delle vittime militari tutti i maschi maggiorenni uccisi negli attacchi, considerando quindi come militari tutte le vittime in grado di portare armi. In questo modo, il numero di vittime civili degli attacchi si è notevolmente ridotto, semplicemente perché non sono più considerati civili i morti che fino al 2011 erano reputati tali.

Ma è soprattutto l’operazione di spionaggio alla base dei raid dei droni a mostrare tutte le contraddizioni di questo tipo di guerra. La CIA, infatti, individua i terroristi incrociando i dati relativi ad alcuni soggetti osservati. Partendo da un soggetto accertato di terrorismo, tutte le persone che abbiano avuto due contatti con questo elemento diventano a loro volta sospette di terrorismo. I contatti in questione possono essere di tipo diverso: telefonate, incontri privati o pubblici, presenza al funerale della vittima, presenza fisica nei luoghi di attentati o nel luogo dove è avvenuto un raid.
Va da sé che secondo questo criterio tutti i parenti del sospettato diventano a loro volta sospettati di terrorismo. Ma il ragionamento si spinge molto oltre. Per essere sospetti di terrorismo può bastare, ad esempio, aver incontrato un sospetto al mercato ed aver preso parte al suo funerale. Due eventi piuttosto comuni in comunità piccole e isolate come quelle afghane o del Pakistan rurale.
Non solo: dal momento che tutti gli uomini adulti vittime dei raid sono considerati terroristi, basta essere amico di una delle vittime, non necessariamente terrorista (ma ritenuto tale in seguito all’attacco) per diventare a propria volta sospetto di terrorismo.

In questa guerra di intelligence e di attacchi mirati, dunque, gli USA si arrogano il diritto di uccidere potenzialmente in tutto il mondo, e in base ad un giudizio assolutamente arbitrario: le vittime degli attacchi non sono sottoposte a processo, nemmeno preventivo, e sono individuate attraverso un criterio di associazione secondo il quale pochi indizi possono condurre all’inserimento nella lista dei sospettati (e dal momento che non esiste un processo ai sospettati, la semplice presenza in questa lista può portare alla morte).

Per quanto indirizzati a finalità diverse, i metodi con cui gli USA e gli alleati NATO stanno conducendo le operazioni di antiterrorismo, dunque, riecheggiano con note inquietanti quelli portati avanti dagli stessi terroristi nell’individuazione e nell’attacco dei propri obiettivi.
Sembra naturale che, basandosi su questi presupposti, la Guerra al Terrorismo durerà ancora a lungo.

Valerio Cianfrocca

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